A ciascuno il suo digitale: mette il turbo alle imprese e le porta nel mondo.
Uno studio condotto per il CUOA su un campione di aziende mette in risalto la stretta relazione tra le strategie di internazionalizzazione e la trasformazione tecnologica. Campagnolo: «l’hi-tech apre opportunità straordinarie». Vasta: «chi non percorre questa strada finisce fuori mercato».
di Sandro Mangiaterra
Per decenni le aziende sono andate in giro per il mondo a caccia di clienti ai quali vendere i prodotti. Oggi sono i clienti che arrivano direttamente alle imprese attraverso i prodotti. Luciano Marton, direttore generale della Texa, sorride: «Se non è una rivoluzione questa…». Non ci sono dubbi. Ma alle rivoluzioni la Texa di Monastier (Treviso), specializzata in apparecchiature per la diagnosi dei guasti alle auto (e ai camion e in generale a tutto quanto si muove), è abituata. Prima ha cavalcato il boom dell’elettronica, adesso si è lanciata sulle tecnologie digitali. In questo modo ha continuato a crescere (120 milioni di fatturato, 600 dipendenti) e a conquistare nuovi mercati (l’export pesa per il 70% sui ricavi, con una presenza in un centinaio di Paesi del mondo). La classica piccola impresa che diventa una multinazionale tascabile. L’esempio perfetto del circolo virtuoso tra hi-tech e internazionalizzazione. Il punto è che, dalla nascita e in nemmeno trent’anni, è stato necessario fare i conti con un paio di «piccoli particolari». Da una parte le trasformazioni radicali del settore automotive: si pensi al noleggio, al fenomeno del car sharing, ma soprattutto alle dotazioni di sicurezza e all’auto che si guida da sola. Dall’altra, la continua evoluzione della tecnologia, tra materiali sofisticati, sensori sempre più avanzati, fino all’intelligenza artificiale. Ed eccoci, dunque, alla rivoluzione digitale. Che per Texa ha un nome preciso: IoT, Internet of Tinghs. «Non siamo stati certo colti di sorpresa» dice Marton. «I nostri primi prototipi riguardo all’internet delle cose risalgono a una quindicina di anni fa. È evidente, comunque, che negli ultimi quattro-cinque anni c’è stata una fortissima accelerazione ». Risultato: la Texa ha studiato una serie di apparecchi che non solo registrano i dati delle tradizionali scatole nere (posizione del veicolo, velocità, responsabilità in caso di incidenti), ma sono in grado di fornire informazioni su condizioni del mezzo, eventuali guasti, urgenze di manutenzione e quant’altro. «Maggiore tranquillità per l’utente, programmazione degli interventi, meno sprechi» sintetizza Marton. Grandi flotte, Enel e Telecom in testa, e gli stessi colossi automobilistici (vedi Volkswagen) si sono mostrati entusiasti e hanno deciso di montare i sistemi «made in Monastier» sulle proprie vetture. Per ragioni di risparmio, ovvio. Ma principalmente perché attraverso questi strumenti è possibile conoscere abitudini, simpatie e antipatie di ogni singolo cliente o utilizzatore del veicolo. Chiaro il concetto? Attenzione, però: questi stessi vantaggi ci sono anche per la Texa. «Attualmente» spiega Marton «abbiamo una rete commerciale e di assistenza estremamente capillare. Grazie alle connessioni digitali molte cose potrebbero essere fatte in casa, nel quartier generale. Non basta: essere in prima linea nell’Internet of Things può essere il grimaldello per una maggiore penetrazione in Nord America ed Estremo Oriente, dove abbiamo enormi margini di sviluppo».
ALLA CONQUISTA DEL MONDO
Gira che ti rigira si torna alla questione centrale: lo stretto rapporto tra alta tecnologia e conquista dei mercati esteri. La digitalizzazione come motore per la crescita a livello planetario. Un tasto cui il Veneto dei 63 miliardi di export e, perché no, il Friuli Venezia Giulia dei 15 miliardi dovrebbero essere assai sensibili. Proprio questo legame è al centro dello studio condotto per il Cuoa di Altavilla Vicentina da Diego Campagnolo, professore di Organizzazione aziendale all’università di Padova, e dai ricercatori Roberto Giunta e Simona Leonelli. Titolo (significativo): «Be international, Be digital ». Sono stati presi in esame numerosi casi di aziende, grandi e piccole, attive in diversi settori. E si è cercato di analizzare la relazione tra scelte di internazionalizzazione e trasformazione digitale di prodotti e processi. «Per cominciare » spiega Campagnolo «il digitale accelera i ritmi dell’espansione all’estero: non è indispensabile essere grandi per decidere di varcare i confini, è sufficiente avere l’idea vincente. Con l’hi-tech si azzerano le distanze, si può comunicare in tempo reale ai cinque continenti ed è facile instaurare un contatto diretto con il cliente, ovunque si trovi. Di conseguenza si riduce il ruolo delle strutture commerciali e dei vari intermediari. Tutto ciò senza contare la possibilità di lanciare nuovi prodotti e nuovi servizi, di aumentare l’efficienza aziendale, di effettuare un marketing personalizzato, di affacciarsi alle vendite online. Uno scenario che apre opportunità straordinarie. E smettiamola di tirare fuori la storia dei costi: le tecnologie digitali, ormai, sono accessibili anche alla piccola e piccolissima impresa». Alessandro Vasta, avvocato di Tonucci&Partner, uno dei maggiori studi professionali d’Italia, specializzato nell’accompagnamento delle aziende all’estero, rincara la dose: «L’intera comunicazione, a partire dal modo di presentarsi ai mercati, non può prescindere dalle tecnologie digitali. Il web e il sito internet sono semplicemente il punto di partenza: oggi occorre essere tech-friendly. Altro che costi, piuttosto si deve parlare di investimenti. Chi non percorre questa strada finisce fuori mercato».
A OGNUNO IL SUO DIGITAL
Esattamente così. Lo sanno bene le imprese selezionate nella ricerca di Campagnolo Co. Il Caseificio Elda di Vestenanova (Verona), produttore di ricotta bio sia per grandi case sia a marchio proprio (12 milioni di fatturato con una trentina di addetti), ha investito sull’automazione del processo, ottenendo il massimo grado di standard di qualità. Ma quel che conta maggiormente è che l’innovazione tecnologica ha permesso di ottenere l’allungamento della vita dei prodotti mantenendo completamente inalterate le loro caratteristiche. Questo ha consentito al Caseificio Elda di avviare l’esportazione delle ricotte anche in mercati dove la distanza rappresentava fino a ieri un ostacolo insormontabile, come Stati Uniti e Giappone. La Better Silver, azienda orafa di Bressanvido (Vicenza), vendite in un’ottantina di Paesi del mondo e una storica produzione per brand del calibro di Pandora e Swarovski, ha sviluppato un’originalissima ibridazione tra canali di vendita online e offline. La Dab Pumps di Mestrino (Padova), produttrice di pompe idrauliche, ha creato un network circolare che mette in connessione casa madre, venditori, manutentori e clienti finali, a tutto vantaggio della rapidità e dell’efficacia di eventuali interventi. Gli esempi potrebbero continuare. E poi ci sono le imprese born digital, native digitali. Una per tutte, la Ono Exponential Farming di San Giovanni Lupatoto (Verona), startup del gruppo Tormec Ambrosi, che ha brevettato un avveniristico sistema per l’agricoltura verticale: un magazzino completamente automatizzato dove negli scaffali è possibile coltivare ortaggi e ogni genere di verdura. «Nasciamo digitali» sottolinea il ceo Thomas Ambrosi «perché, vassoio per vassoio, vengono impiegati software, sensori e algoritmi in grado di conoscere lo stato di avanzamento della coltivazione e di ottimizzare l’impiego di luce e acqua. Quanto alla vocazione internazionale, beh, l’abbiamo stampata nel Dna: i nostri mercati di sbocco sono le aree fredde e calde del pianeta, il Nord Europa e il Nord America, i Paesi arabi, le megalopoli tipo New York, Tokyo, Hong Kong». A proposito, sullo sfondo c’è un dato impressionante: in linea potenziale il business della Ono Exponential Farming, da qui al 2025, vale 1,3 miliardi di euro.
METTI IL TURBO NEL MOTORE
Resta la domanda chiave: al di là delle (pur numerose) eccellenze e dei casi di scuola, le imprese nordestine hanno capito fino in fondo l’importanza strategica degli investimenti in alta tecnologia? Per carità, il gran parlare di Industria 4.0 ha diffuso a tappeto il verbo digitale. Gli incentivi, super e iperammortamento in primis, sono sicuramente serviti ad avviare l’ammodernamento degli impianti. Peccato che, tirate le somme, appena il 5% del Pil italiano sia riconducibile al digitale, contro una media europea del 6,6% e un picco dell’8% in Germania. E che a restare indietro siano proprio quelle Pmi che costituiscono l’asse portante del nuovo triangolo industriale. «La strada da percorrere è ancora lunghissima» riconosce Franco Conzato, direttore di Promex, l’azienda speciale per l’internazionalizzazione della Camera di commercio di Padova. «Ma anche i piccoli e i piccolissimi hanno fatto passi da gigante. Ricordate la vecchia immagine dell’imprenditore nordestino che gira per le fiere di mezzo mondo con la valigetta piena di dépliant? Sembra passato un secolo. Oggi con i tablet e gli smartphone ci si porta dietro l’intera azienda». Fatto sta che è necessario uno scatto in avanti. Magari sfruttando la grande novità maturata negli ultimi mesi: il riavvicinamento tra sistema delle imprese e mondo delle università. Difficile sapere se sarà la volta buona. Ma la rete dei competence center e dei digital hub prevista dal piano Industria 4.0 è finalmente ai nastri di partenza. «Per le Pmi» sostiene Fabrizio Dughiero, prorettore dell’università di Padova con delega al trasferimento tecnologico, nonché presidente del Consiglio di gestione del neonato competence center del Nordest, con sede a Venezia «si apre un’opportunità che va assolutamente sfruttata: potere vedere, toccare con mano, sperimentare le molteplici applicazioni del digitale. L’obiettivo è ottimizzare i processi, studiare prodotti innovativi, mettere a punto nuovi modelli di business». Significa mettere il turbo della competitività. E se si è più competitivi è (anche) più facile aggredire i mercati internazionali. È il rilancio di cui ha bisogno il Nordest.
(fonte Corriere della Sera)